sabato 17 novembre 2007

Sogno?

Sembrava impossibile riuscire a sopravvivere. Un forte rumore dentro di lei e un silenzio assordante fuori, insopportabile. Come se fosse stata travolta da una frana. Non poteva nè resistere al dolore nè affrontarlo. E allora aveva deciso di non resistere. Aveva lasciato tutto, casa, genitori, e si era messa a fare la cameriera, lontano. Una taverna sulla spiaggia a Creta, e lì i ricordi non l'avevano seguita. Aveva affittato uno studio sulla collina, e aveva rimesso insieme i pezzi della sua vita su un terrazzo con vista sul mare, immersa tra gli ulivi.                                                                              Era una mattina di settembre, il mare splendeva sotto la luce del sole e accoglieva in sè il rosso delle rocce, il verde grigiastro degli alberi e in alcuni punti addirittura il bianco delle ville sulla collina.                            Con un misurato movimento della mano lisciò un'impercettibile piega della tovaglia e spostò un bicchiere di qualche millimetro, perchè catturasse meglio i raggi del sole, riflettendo così silla grigia terrazza della taverna i colori dell'isola. Tanto, quella mattina non sarebbe venuto nessuno. Nel resto del mondo stava cominciando un anno lavorativo, un anno di scuola, un anno di routine noiosa e ripetitiva. Non avrebbe mai più permesso a quella routine di stressarla, di tentare di spezzarla piegandola fino all'inverosimile. Quel giorno avrebbe cominciato a lavorare solo verso mezzogiorno, servendo il pranzo ai Greci, e quindi aveva tutta la mattina per sè. Non sapeva se esserne contenta. Avere de tempo libero significava pensare, fare i conti con se stessa, rischiando di trovarsi davanti dei ricordi scomodi, impossibili da elaborare.                                                         Tolse i sandali e scese in spiaggia passando per una scala di corda, saltellando per non ferirsi i piedi, poi scivolò giù sulla sabbia. Avanzò fin sul bagnasciuga lasciando che le onde le lambissero i piedi, mentre tra le sue dita danzavano granelli di sabbia rosa. Poco più in là, tra quattro scogli, in una pozza d'acqua salata, riposavano immobili paguri e patelle.


Lui la vide da lontano. Si era tolta i vestiti e si era allungata a pancia in giù sulla sabbia, i suoi capelli biondo cenere nascondevano il reggiseno del bikini rosso fuoco. Il suo orologio d'oro mandava bagliori accecanti, mentre con la mano sorreggeva il viso che non aveva mai smesso di sognare, le lunghe ciglia brune gettavano un'ombra sui suoi enormi occhi azzurri, che cambiavano colore insieme al cielo e le maree, e su quelle labbra infantili che ora mordeva coi denti. Leggeva. Chissà se era ancora quello il libro, se ancora rifletteva, cercando una connessione tra quelle tre storie d'amore a cui solo la morte aveva saputo porre fine, se rimuginava ancora su quel discorso contro la pena capitale, il più celebre della letteratura, che troppo tempo prima gli aveva letto con voce vibrante davanti al camino. In un'altra vita. Rimase ancora un attimo fermo a guardarla, cercando di trattenere il coraggio che ora gli sfuggiva, come l'acqua sfugge da una vasca quando viene tolto il tappo, poi la raggiunse.                                                          Immersa nella lettura, intuì la sua presenza silenziosa, mentre sulla sabbia si andava disegnando una sagoma scura. Fece una strana fatica a riconoscerlo, per qualche istante le parve che la sua immagine traballasse, stentando a stamparsi sulla retina. Non era poi molto che non si vedevano, ma era tutto..lontano. Non era mutato. Sempre la stessa espressione negli occhi scuri, così seria e attenta da sembrare triste, sempre la stessa piega sottile delle labbra, vagamente canzonatoria. Tanti ricordi le stavano piombando addosso tutti insieme, e non voleva occuparsene subito. Non poteva. Pregò che non parlasse, che la lasciasse libera di raccogliere i vestiti, la borsa, lo scatolone ancora sigillato contenente il suo passato e di scappare. Naturalmente, parlò. "Picca. Finalmente" Era giunto fin lì per costringerla a misurarsi col suo dolore e forse a tornare a casa. Ma in un certo senso questo la rassicurava, le dava conforto, non aveva più paura.             Guardandolo, si sentiva come quando, in palestra di roccia, una volta arrivata in cima, doveva scendere. Una scelta obbligata, di fronte alla quale provava sempre una fugace incertezza. Decise di buttarsi, e lui fu la sua corda. Chiuse gli occhi e lasciò fluire i pensieri. Un istante più tardi, era in lacrime tra le sue braccia.  Molto più tardi, dopo avergli offerto un pranzo e dopo aver fatto una lunfga passeggiata con lui lungo la spiaggia, oltrepassando scoglierie e gelidi fiumiciattoli, tornò a casa, risalendo la collina.       uscendo in terrazza si fermò ad accendere lo stereo, e con decisione cercò il brano giusto. Fabrizio Dè Andrè, Il Pescatore. Serena immagine di morte, e quieta manifestazione di anarchia. Si sedette sul divanetto è ripensò alla loro conversazione sugli scogli. Era stato pacato, ragionevole, l'aveva portata a riflettere sulla sua condizione, facendo sì che ella ammettesse di non poter trascorrere lì l'inverno. Doveva tornare. Accese una sigaretta, si sedette sul muretto a contemplare il mare. I raggi della luna piena giacevano sull'acqua, cullati dal moto incessante e rassicurante delle onde, e andavano ad illuminare il suo polso sottile, la brace che si consumava. A pochi chilometri da lì, posandosi sul davanzale di una finestra di una stanza d'albergo in paese, la luna illuminava un'altra sigaretta, un altro polso, un profilo sicuro e dei grandi occhi scuri che si andavano a perdere tra le onde. Chiudendo le ante, Picca rimase un secondo a fissare il panorama che le si presentava davanti, e si ritrovò a pensare a quello che l'aveva condotta lì. Aprì il diario e cominciò a scrivere.                                                                "Ricordo il buio, l'atmosfera creatasi tra di noi. Il suo profumo, le labbra morbide sulle mie, lo sensazione di sfregamento della barba dura. Lo sporgere di un osso del polso, la profondità scura dei suoi occhi, i capelli soffici tra le mie dita. La vita sottile, le ossa sporgenti. la dolcezza. Poi la risata silenziosa, la sua testa abbandonata contro il sedile, la sua mano nalla mia, sulla mia guancia, tra i capelli. Di nuovo la testa  sul suo petto, poche parole, insignificanti di fronte all'immensità di questo momento. I fari di un'auto ci disturbano, mi ripara con le braccia, serra gli occhi, un fascio di luce maleducata illumina il suo viso magro. Ma tutto il resto, i suoi lineamenti, il suono della sua voce, le carezze mi sfugge, risucchiato dal buio di quella notte, oltre il finestrino, oltre la montagna, oltre noi, oltre la realtà. Perchè quella notte, tra le braccia di un uomo bellissimo, ho vissuto un sogno."   Eccolo lì. Scritto. 1sogno, era fuggita a causa di un sogno. E ci aveva messo 5mesi a capirlo. Assurdo, o forse no. forse era così che doveva andare. La mattina dopo, al'alba, Picca tese la mano a lui, che mai l'aveva giudicata, pronta a tornare a casa. Conservando un sogno nel cuore.

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